Intervista a Corrado Viafora

Corrado Viafora è il fondatore del gruppo di ricerca “Filosofia morale e bioetica” ed è stato per tanti anni direttore del Corso di Perfezionamento in Bioetica presso l’Università di Padova. La sua ricerca si è focalizzata specialmente sugli aspetti etico-antropologici della bioetica, sul ruolo dei comitati etici e sulla pratica clinica. La sua proposta etica è quella di un’etica dell’accompagnamento incentrata sul concetto di dignità.

1) All’origine della bioetica lei colloca l’irruzione della tecnica nel mondo della vita. Uno degli effetti più evidenti di questo cambiamento è stato il venir meno di confini netti tra la vita e la morte, sempre più sfumate l’una nell’altra. In che modo crede che l’utilizzo dei dati empirici e dell’argomentazione razionale possano dirimere questioni così controverse?

Mi fermo volentieri su questo tipo di questioni perchè mi dà modo di evidenziare un aspetto che più qualifica lo statuto della bioetica: la sua dimensione interdisciplinare. A questo aspetto molto dibattuto nello “stato nascente” della bioetica in Italia, ho dedicato uno dei miei primi libri, La bioetica alla ricerca della persona negli stati di confine. Quando inizia una vita umana? Quando finisce? Quale soglia considerare decisiva all’inizio: il concepimento, l’attecchimento, la formazione di un abbozzo di sistema neurale? Quale considerare decisiva alla fine: la cessazione del battito cardiaco, la perdita delle funzioni cerebrali, di tutte le funzioni dell’encefalo, delle sole funzioni corticali? La mia idea è stata sempre che i dati che la scienza fornisce in termini sempre più precisi sono certo il necessario punto di partenza, per quanto riguarda la determinazione dell’inizio della vita, così come per quanto riguarda la fine. Da soli però non bastano. Chi sostiene, ad esempio, che l’inizio della vita di un essere umano coincida con il concepimento, lo fa certo sulla base dell’identità genetica che, stando alla conoscenza scientifica, in questa fase si costituisce; ciò però che in ultima analisi è determinante è la teoria dell’identità umana cui esplicitamente o implicitamente ci si ispira per sostenere che a partire da una determinata soglia comincia a esserci “un altro come noi”. Lo stesso vale per la determinazione della fine della vita e per la diagnosi di morte. Assumere come decisiva ad esempio la cessazione delle funzioni cerebrali per considerare morta una persona non è una tesi medica. Di competenza medica è senz’altro l’identificazione delle procedure diagnostiche per verificare i criteri cerebrali, ma la giustificazione di questi criteri suppone l’istruzione di una serie di questioni che non sono di natura medica, sono di natura filosofica. Determinante anche in questo caso è la teoria dell’identità umana cui esplicitamente o implicitamente ci si ispira per sostenere che a partire da una certa soglia cessa di esserci “un altro come noi”. Tale teoria naturalmente deve essere fatta valere contro le alternative fornite dalle proposte rivali. Chi assume una concezione coscienzialista di persona, in quanto la considera più adatta a graduare il rispetto dovuto all’essere umano in rapporto agli stadi del suo sviluppo, quand’anche risponda a un’intuizione che per molti può sembrare convincente, non può non fare i conti con la continuità che la biologia documenta tra tutti gli stadi dello sviluppo, a partire dagli stadi embrionali più precoci. Cosa sarebbe l’embrione prima che si attivi, con lo sviluppo di una bozza neurale, la base biologica necessaria al funzionamento delle capacità che qualificano un essere umano? Cosa sarebbe un essere umano che per l’impatto di una grave malattia neurologica avesse perso ogni capacità mentale? Chi, d’altra parte, assume una concezione sostanzialista di persona, in quanto la considera più in grado di dar conto ad esempio del ruolo cruciale dell’informazione genetica che guida lo sviluppo embrionale, deve chiarire il senso che dà alle categorie filosofiche correlate alla sua concezione: il concetto di forma, quello di potenzialità, e in particolare quello di individualità. Si deve da una parte verificare quanto il concetto filosofico di forma riesca a tradurre la logica dell’“informazione genetica”; quanto il concetto filosofico di potenzialità riesca a tradurre la logica della “differenziazione cellulare”; e verificare, dall’altra, fin dove arrivi la possibilità di applicare il concetto di persona come “sostanza individuale”, se, stando a quanto la biologia dello sviluppo ci dice, nelle prime fasi della vita embrionale l’individualità non è ancora determinata.

2) Un concetto che lei utilizza molto è quello di dignità. Oltre ad essere da molti considerato semanticamente vago e normativamente indeterminato, il concetto di dignità viene generalmente fatto coincidere con il principio di autonomia ed è spesso considerato in conflitto con stati di dipendenza e sofferenza. A suo avviso, questa è una lettura corretta del concetto di dignità?

La ragione che mi ha portato a ricorrere all’idea di dignità – di dignità umana per essere precisi– sta nel fatto che mi sono sempre più reso conto dei limiti cui incorrono gli approcci tuttora dominanti nell’argomentazione bioetica: quello centrato sulla difesa della vita di ispirazione neogiusnaturalista e quello centrato sulla rivendicazione del diritto all’autodeterminazione di ispirazione liberale. Sia l’uno che l’altro mi sembra non prendano sul serio dimensioni fondamentali dell’esperienza morale nelle pratiche biomediche, la pratica clínica in particolare. Per quanto riguarda il primo di questi due approcci, ci sono certo buone ragioni per considerare la vita bene umano fondamentale. E tuttavia sono altrettanto valide le ragioni perché a ogni costo si faccia tutto ciò che contribuisca a conservarla e a prolungarla, o si danno costi moralmente inaccettabili? Come si giustifica, tuttavia, l’inaccettabilità morale di questi costi? Lo si può fondatamente giustificare solo se si ammette che la vita è sì un bene fondamentale, ma non assoluto. Da qui il mio appello all’idea di dignità umana per indicare un orizzonte più ampio e più radicale che consenta di identificare un bene più importante della stessa vita e giustificare l’inaccettabilità morale dei costi che determinati trattamenti possono comportare per conservarla e prolungarla. Per quanto riguarda il secondo approccio, si deve riconoscere che la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione nell’ambito delle relazioni sanitarie costituisce per tanti versi l’atto di nascita stesso della bioetica. Anche se in una situazione di bisogno determinata dalla malattia, il paziente rimane “sovrano” del suo corpo, rivendicando con questo il diritto alla “autodeterminazione” nelle scelte che si riferiscono alla sua vita e alla sua salute. I guadagni sono indubbi. E, tuttavia, bisogna chiedersi se anche questo approccio sia del tutto in grado di intercettare l’esperienza morale vissuta nel contesto della pratica clinica. La mia idea è che ci sono aspetti significativi di questa esperienza che l’approccio centrato sull’autodeterminazione non prende sul serio. Il motivo sta nel fatto che la concezione contrattualista che ha finito per modellare anche la relazione medico-paziente non riesce a dar conto della sua specificità, caratterizzata dalla cura e dalla fiducia. Un approccio centrato sul diritto all’autodeterminazione non riesce a spiegare come sia possibile che una relazione di cura e di fiducia si attivi all’interno di un mondo fatto di individui originariamente irrelati, vincolati solo da accordi su determinate prestazioni. Qualora, poi, si consideri che molte scelte con cui la pratica clinica ha a che fare riguardano pazienti la cui capacità decisionale è fortemente compromessa, non si può non denunciare la cecità di chi pretende di affrontare le questioni etiche all’interno della pratica clinica con il pensiero unico dell’autodeterminazione. Da qui il mio appello alla dignità umana per indicare un orizzonte più ampio e più radicale che consenta di render conto del vincolo che originariamente ci lega e su cui trova forza anche la relazione di cura praticata nella medicina.

Immancabili le critiche. Dignità umana? Un’idea vaga. Da qui, la ricerca in cui da anni sono impegnato per rendere credibile l’appello alla dignità umana, tentando di chiarirne il senso e giustificarne la portata normativa. Sono due i riferimenti di cui in questa ricerca mi servo. Il primo è dato dalla tradizione kantiana. Il secondo dalla interpretazione personalista di questa tradizione: quella che va da E. Mounier a P. Ricoeur. Storicamente è stato Kant ad attribuire alla dignità umana un ruolo centrale nella concezione dell’etica. Si tratta di un’idea che per la complessità della sua articolazione ha registrato e continua a registrare formulazioni diverse, tutte comunque radicate in quello che se ne può considerare il nucleo e che trova la sua espressione nelle pagine della Fondazione della metafisica dei costumi: il riconoscimento della dignità come valore intrinseco e incondizionato di ogni essere umano in quanto persona, in quanto cioè capace di moralità. Dire di ogni essere umano che è persona vuol dire riconoscerne la natura più propria. A un essere umano non capita di essere persona, potendo non esserlo ancora o non esserlo più. L’essere umano “esiste” come persona, è l’unico suo modo di esistere. E il particolare atteggiamento che il riconoscimento della natura personale dell’uomo richiede è il rispetto. Com’è noto, Kant sintetizza il senso del rispetto nella “formula dell’umanità come fine”: “Agisci in maniera tale da considerare l’umanità, sia nella tua persona che nella persona di ogni altro, sempre al tempo stesso come fine e mai semplicemente come mezzo”. Nella formula dell’“umanità come fine” ci sono due termini chiave: quello di “umanità” e quello di “persona”. Referente immediato del rispetto è l’umanità. Non è però una forzatura tradurre in termini personalisti questa formula e riferire il rispetto che si deve all’umanità direttamente alle singole persone, dato che è in esse che l’umanità si trova a essere incarnata. Il riferimento, tuttavia, che così espressamente si fa all’umanità rimane a qualificare in maniera determinante il principio etico del rispetto: sia nella direzione che va dall’umanità alla persona; sia nella direzione che va dalla propria persona alla persona di ogni altro. Seguo in questo l’interpretazione personalista della formula dell’umanità come fine sviluppata da Paul Ricoeur. Per dar conto dell’elaborazione del rispetto ispirata a questa tradizione personalista, di particolare utilità è confrontarla con quella che si dà all’interno di una tradizione che, come quella personalista, fa ampio uso del concetto di rispetto: la tradizione liberale. Quanto alla prima direzione, di fondamentale importanza è la distinzione tra dignità che è della persona e dignità invece che è nella persona. È su questo che si gioca una prima differenza tra l’interpretazione del rispetto che danno la tradizione liberale e quella personalista. Dire, come fa la tradizione liberale, che la dignità è della persona vuol dire che è la persona che ne dispone, nel senso che è la persona che la istituisce, in maniera tale che la valutazione di una scelta come più o meno rispettosa della dignità dipende da ragioni che, individualmente, la singola persona si dà, sganciate dal riferimento a ogni dimensione universale dell’umano. Dire, invece, come fa la tradizione personalista che la dignità è nella persona, vuol dire certo che è la persona il luogo dove effettivamente la dignità si dà, ma questo non vuol dire che sia la persona, nella sua autoreferenzialità, a istituirla e a disporne. È la presenza dell’umanità, piuttosto, a istituire ogni essere umano come persona, capace cioè di moralità. Senza questo presupposto, sarebbe difficile dar conto di come sia possibile che scelte, pur autonome, possono degradare la propria dignità personale. Un dato che pure la nostra esperienza morale ci attesta. Quanto alla seconda direzione del rispetto, quella che va dalla propria persona alla persona di ogni altro, la differenza tra l’interpretazione del rispetto della tradizione liberale e l’interpretazione del rispetto di quella personalista si riferisce al fatto che, mentre per la tradizione liberale, gli individui, liberi da ogni legame, si rapportano tra di loro sulla base di un contratto, per la tradizione personalista la condivisione della stessa umanità fonda un vincolo che originariamente ci lega come soggetti alla stessa legge morale. È il vincolo che, solo, riesce a spiegare lo stretto rapporto che si dà tra rispetto per la dignità dell’altro e rispetto per la propria. Che riesce a spiegare l’esperienza che facciamo quando avvertiamo che, violando la dignità dell’altro, non ne va solamente della sua dignità, ma anche e soprattutto della nostra. Che riesce a spiegare l’esperienza che facciamo quando l’indignazione suscitata in noi dall’oltraggio patito dall’altro ci fa avvertire che la dignità compromessa nell’altro è compromessa sempre e comunque anche per noi. Si tratta di esperienze significative che portano alla luce la dimensione intersoggettiva della dignità umana, una dimensione che la persistente polarizzazione tra polarità oggettiva e polarità soggettiva, che continua a registrarsi nel dibattito bioetico e biogiuridico in tema di dignità umana, non permette di evidenziare e valorizzare.

Una volta giustificato il principio etico del rispetto per la dignità umana, e dopo averlo qualificato nel confronto con la tradizione liberale, la questione che ho cercato di affrontare è quella della sua specificazione in rapporto ai particolari aspetti dell’umano coinvolti nelle diverse pratiche biomediche. Il principio che ogni essere umano debba essere rispettato nella sua dignità personale è una “predisposizione” che ci abita come soggetti morali e può a giusto titolo costituire la base condivisa su cui costruire l’argomentazione del giudizio bioetico. La specificazione, tuttavia, di che cosa il rispetto per la dignità umana esige nei diversi contesti delle pratiche biomediche può venire solo da una riflessione di natura antropologica in grado di interpretare il senso dei particolari aspetti dell’umano coinvolti in queste pratiche. Senza il riferimento a un orizzonte antropologico, come sarebbe possibile affrontare problematiche etiche come quelle che sempre più si registrano nei vari contesti delle pratiche biomediche, dove a far problema sono proprio le dimensioni di senso, prima che quelle strettamente normative? Come specificare ciò che il rispetto per la dignità umana richiede nel contesto delle cure oncologiche, senza far riferimento al senso umano della malattia e della sofferenza? Come specificare ciò che il rispetto per la dignità umana richiede nel contesto delle cure intensive, senza far riferimento al senso del limite con cui hanno a che fare le nostre vite? Come specificare ciò che il rispetto per la dignità umana richiede nel contesto dell’assistenza alle persone anziane, senza far riferimento al senso umano di questa età della vita? Come specificare ciò che il rispetto per la dignità umana richiede nel contesto delle cure di fine vita, senza far riferimento al senso umano del tempo del morire? Come specificare ciò che in tema di diagnosi pre-impianto, ad esempio, o di maternità surrogata il rispetto per la dignità umana richiede, senza far riferimento alle sfide che queste pratiche rivolgono al senso umano della procreazione e della genitorialità? Si deve alla fenomenologia nel corso del Novecento di avere messo al centro della riflessione filosofica la questione del senso e, quello che più conta, di aver individuato nell’analisi dell’esperienza vissuta di essere persona, dell’esperienza vissuta della corporeità in particolare, la via di acceso al senso dell’umano. La mia idea è che un’adeguata specificazione del rispetto per la dignità umana nel contesto delle pratiche biomediche non possa fare a meno del contributo dell’analisi fenomenologica. Solo una sistematica analisi dell’esperienza vissuta di essere persona che questa analisi consente dà la possibilità di mostrare le dinamiche di cui è fatto l’umano e identificare in questo modo le premesse per specificarne il rispetto in contesti, come quello della pratica clinica, dove l’umano è particolarmente alla prova. Detto in estrema sintesi, ciò che qualifica la struttura del mio approccio argomentativo centrato sulla categoria del rispetto è, come si vede, la distinzione tra due livelli dell’argomentazione: il livello del che ogni essere umano debba essere rispettato nella sua dignità personale e il livello del che cosa il rispetto esige in rapporto agli specifici aspetti dell’umano coinvolti nelle pratiche biomediche. La convinzione che ho maturato è che, strutturata in questo modo, l’argomentazione bioetica centrata sul rispetto della dignità umana è in grado di garantire, da una parte, l’ancoraggio a un principio incondizionato e di offrire, dall’altra, la possibilità di un confronto sulle problematiche bioetiche all’altezza della radicalità richiesta dalla loro valenza antropologica.

3) Passando ora all’inizio vita e volgendo lo sguardo allo sviluppo delle tecniche riproduttive, nonché al modo di intendere la procreazione e le responsabilità connesse, quali pensa saranno gli interrogativi etici con cui la bioetica dovrà confrontarsi in futuro?

Volendo dare una rappresentazione sintetica degli interrogativi etici che pone e che a mio parere la procreazione medicalmente assistita continuerà a porre, mi sembra che possano essere ricondotti tutti al divario che queste nuove tecnologie aprono tra ampliamento dello spazio della scelta e restringimento della necessità della natura. In altre parole: quanto prima appariva imposto dal destino o dalla volontà di Dio, si trasforma in potenziale oggetto di scelta. Qualcuno potrebbe dire: dove sta il problema? Come non riconoscere il pieno valore dell’autonomia nelle questioni così intime e personali che hanno a che fare con le scelte procreative? Non è questo il problema. A far problema è il fatto che in molti casi viene meno la possibilità di un’adeguata riflessione che metta a fuoco i condizionamenti che operano su tali scelte. I condizionamenti che nel dibattito pubblico vengono più evidenziati sono quelli legati alla prepotenza della tecnica, alle logiche di mercato, alle dinamiche sociali. E questo va bene. Sono dell’idea però che si dovrebbe prendere in maggiore considerazione un ulteriore tipo di condizionamenti: quelli legati al linguaggio riduttivamente scientifico che tende a prevalere nel contesto delle pratiche di procreazione medicalmente assistita. Quanto è in grado questo linguaggio di rendere consapevoli dell’impatto che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita può avere nel figlio innanzitutto, ma anche nella costruzione della relazione genitoriale e nella stessa relazione di coppia? Con questo non si vuole dire che il linguaggio scientifico non sia valido. Valido lo è certo, ma entro ben precisi ambiti di utilizzo. Imprescindibile è una consapevolezza di ordine diverso, quella che solo l’elaborazione di un proprio quadro simbolico può dare. Solo grazie a questa consapevolezza una coppia potrà integrare l’intervento tecnico nel proprio desiderio di genitorialità. La stessa cosa vale per gli interrogativi di natura etica implicati nel ricorso ai test diagnostici prenatali. Al riguardo non si può non prendere in considerazione la particolare situazione di vulnerabilità di fronte a cui si trovano genitori alle prese con diagnosi prenatali che annunciano la nascita di un figlio gravato da più o meno pesanti disabilità o menomazioni. Un approccio bioetico che voglia prendere sul serio le concrete condizioni in cui in questo contesto si compiono le scelte procreative dovrebbe impegnarsi ad analizzare criticamente gli standard sociali di normalità e a impostare percorsi di accompagnamento che offrano un effettivo aiuto al discernimento etico. Non si vuole con questo negare che durante la gravidanza si verifichino situazioni veramente dilemmatiche, in rapporto a cui la responsabilità ultima della decisione non può che spettare alle donne. Si vuole piuttosto far riflettere su quale cultura nell’ambito delle pratiche e delle politiche pubbliche o istituzionali si va costruendo attorno alla crescente “supervisione del feto” resa possibile dalle tecnologie di diagnosi prenatale: una cultura dell’inclusione e del riconoscimento dell’altro nella sua “alterità” e nella sua “assoluta unicità”, o una cultura della paura che mira a stigmatizzare quelli che non corrispondono agli standard fissati dalla soglia del normale funzionamento e stigmatizzare insieme i genitori che li hanno fatti nascere?

4) In riferimento al fine vita, lei propone un’etica dell’accompagnamento che, dando molta importanza alla pratica clinica, si pone in maniera critica verso le pratiche dell’eutanasia e del suicidio assistito. Perché crede che queste pratiche non possano essere integrate in un’etica dell’accompagnamento e come dovremmo rispondere alle sofferenze di chi chiede di morire?

Sì, è vero, le mie critiche verso eutanasia e suicidio assistito prendono spunto da un approccio alla problematica del fine vita maturato sulla base di dati che emergono dalla concretezza della pratica clinica, più che a partire dallo scontro a livello di principi di cui su questi temi si alimenta il dibattito pubblico. L’etica dell’accompagnamento che da molti anni vado proponendo deve molto a questo approccio. Cosa dicono i dati che emergono dalla pratica clinica? Dicono innanzitutto che le condizioni del morire sono profondamente mutate rispetto a un tempo. Stando ai risultati di uno studio promosso dai Medici di medicina generale riguardante le cause di morte di maggiore incidenza, sui 20 decessi all’anno nei quali un medico si trova direttamente coinvolto, 5 sono causati da cancro, 5 da insufficienze croniche, 8 da fragilità, comorbilità e demenza; solo 2 decessi da morte improvvisa. La situazione è peraltro del tutto simile ad altri Paesi del mondo occidentale e documenta un fenomeno che ha rilevanti implicanze etiche, non solo organizzative. Mi riferisco al prolungamento che la fase finale della vita subisce a causa della crescente incidenza di malattie croniche e degenerative unita agli attuali trattamenti medici che permettono di rallentarne il processo, ma in condizioni in molti casi umanamente problematiche. Le prove che da sempre sono legate al morire rischiano così di assumere un peso molto più grave che in passato. La fase finale della vita può diventare una prova enorme, sia per chi direttamente la vive, sia per chi assiste. Reale è il rischio che la richiesta di essere aiutati a morire finisca per imporsi come la via per sottrarsi alla percezione di sentirsi di peso. Importanti ricerche empiriche mettono bene in luce la relazione tra “sentirsi di peso” (“being a burden to others”) e “desiderio di morire” (“wishes to die”). Coinvolte in queste ricerche sono persone con tumore in fase avanzata, persone con grave insufficienza d’organo, persone con malattie neurodegenerative, insieme a persone anziane fragili. A prescindere dalle specifiche traiettorie che la fase terminale in questi casi attraversa, situazioni come quelle rappresentate in queste ricerche esemplificano in maniera drammatica la vulnerabilità che segna il vissuto di molte persone nella fase finale della loro vita. L’etica dell’accompagnamento si propone espressamente di rispondere a questa situazione e mira a un’interpretazione più critica del diritto di morire con dignità, sia in merito all’oggetto di questo diritto, sia in merito al soggetto. Qual è in casi come questi l’oggetto di un’eventuale richiesta di essere aiutati a morire? È il diritto a decidere autonomamente della propria morte o piuttosto il diritto di essere assistiti e accuditi senza sentirsi di peso? Chi è il soggetto che chiede di affrettare la morte? È il paziente o l’ambiente che lo circonda? Si tratta di domande che una spregiudicata riflessione sul fine vita non può non prendere in considerazione, se veramente si voglia evitare che una regolamentazione dell’aiuto a morire – tramite suicidio assistito o eutanasia – assuma il senso di un sacrifico di sé cui un certo numero di persone anziane o gravate da malattie croniche e degenerative sarebbe indotto dalla percezione colpevolizzante di sentirsi di peso. Sia chiaro, non pretendo certo con i rischi prospettati di dare una risposta esaustiva alla tua domanda, né tanto meno di chiudere il dibattito sulla questione dell’aiuto medico a morire. Quello che con l’etica dell’accompagnamento – che ho ripreso anche nell’ultimo libro La cura e il rispetto. Il senso della bioetica clinica – vorrei suggerire è piuttosto un’indicazione di metodo per un’istruzione della questione che sia attenta al contesto all’interno del quale oggi può nascere la richiesta di essere aiutati a morire. È la condizione imprescindibile per determinare quale sia veramente l’oggetto di questa richiesta e insieme il diritto in questione, quello su cui dovrebbe basarsi un’adeguata regolamentazione giuridica.

5) Coerentemente con la sua attenzione verso la pratica clinica, lei è uno dei bioeticisti italiani che più si è occupato dei Comitati di etica in sanità. Quale importanza ritiene possano avere nelle istituzioni sanitarie?

Tra l’ultimo saggio che ho dedicato ai Comitati etici in sanità, apparso nel corso del 2013 su “Bioetica” e la pubblicazione di Comitati etici, una proposta bioetica per il mondo sanitario, il libro dove per la prima volta illustravo le potenzialità che i comitati etici avrebbero potuto avere anche nel nostro contesto sanitario e culturale, sono passati quasi venti anni. Non parlo naturalmente dei comitati etici per la ricerca, parlo di quelli che nella letteratura internazionale sono comunemente denominati Healthcare ethics committees o Clinical ethics committees e che in Regione Veneto – l’unica in Italia a prevederne l’istituzione all’interno di ogni azienda socio-sanitaria – sono chiamati Comitati etici per la pratica clinica. Attraverso il diretto impegno ad accompagnarne il processo di istituzione, mi sono convinto delle potenzialità che questi comitati possono avere per superare quella che si configura come una vera e propria “situazione paradossale”, rappresentata dal fatto che mentre, da una parte, si amplia sempre più nell’attuale pratica clinica una specifica domanda di etica, dall’altra, si riduce drasticamente lo “spazio” per una riflessione etica all’altezza della complessità che questa domanda sempre più riveste. E tuttavia si deve prendere atto che, nonostante queste potenzialità, in Italia questi comitati etici stentano ancora ad affermarsi e il dibattito al riguardo, molto vivo negli anni Novanta, si trova oggi in una situazione di stasi. Certo, ciò è dovuto in buona parte al fatto che non si è proceduto a distinguere chiaramente i comitati etici per la sperimentazione dai comitati etici per la pratica clinica. Il modello unico polifunzionale che si è imposto ha finito inevitabilmente per dedicarsi esclusivamente all’analisi dei protocolli sperimentali. Ci sono tuttavia altri motivi che operano a un livello più profondo e che dicono di alcuni aspetti critici della bioetica italiana. Scetticismo nei confronti di questo tipo di comitati etici ha più volte dimostrato molta parte del mondo giuridico italiano, in base alla convinzione che solo specifiche norme di legge siano la risposta adeguata ai problemi che incontra oggi la pratica clinica. Bisogna fare i conti, inoltre, con le resistenze espresse da parte di molti amministratori. Il loro timore è che l’istituzione di uno “spazio etico” aperto, attivo e accessibile possa introdurre elementi ingestibili di conflittualità. L’idea che personalmente mi sono fatto è che, a prescindere dai diversi modi di organizzare la risposta che non si può non dare alla situazione paradossale cui facevo riferimento e che l’impatto sulla sanità della recente pandemia ha reso ancora più urgente, l’importanza dei comitati etici sta tutta in un metodo particolare che indicano. È quello che io chiamo “il metodo dei comitati etici”. Tale metodo insegna a istruire i problemi etici sulla base dell’esperienza concreta, evitando in tal modo che la loro complessità sia costretta dentro schemi astratti o polarizzata tra opposte ideologie; impone di dar voce a tutti i soggetti legittimamente coinvolti nelle scelte, nella convinzione che solo l’integrazione di queste diverse voci riesca a fornire una rappresentazione quanto più adeguata della problematica etica; suggerisce di elaborare linee guida attraverso un confronto sia interno che esterno all’istituzione in modo che esse siano credibili e forti. Una bioetica che sappia accogliere le istanze di questo metodo sono convinto sarà molto diversa da una bioetica bloccata dallo scontro ideologico; così pure da una bioetica appiattita sulle norme dei pur importanti codici etico-professionali; o da una bioetica preoccupata che non si dia alcuno spazio decisionale non coperto dalla “certezza” della legge.

Approfondimenti:

Libri:

  • Viafora, C. (2023). La cura e il rispetto. Il senso della bioetica clinica. Franco Angeli.
  • Viafora, C., Furlan, E., & Tusino, S. (2019). Questioni di vita. Un’introduzione alla bioetica. Franco Angeli.
  • Viafora, C., & Marin, F. (2014). Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale. Franco Angeli.
  • Thomasma, D. C., Weisstub, D. N., Kushner, T. K., & Viafora, C. (2010). Clinical Bioethics. A Search for the Foundations. Springer Dordrecht. https://doi.org/10.1007/1-4020-3593-4
  • Viafora, C. Zanotti, R., & Furlan, E. (2007). L’etica della cura. Tra sentimenti e ragioni. Franco Angeli.
  • Viafora, C. (2006). Introduzione alla bioetica. Franco Angeli.

Articoli/Paper:

  • Viafora, C. (2018). Can ethics govern technology? Bioethics in the age of techno-science. In M. Sinaci & S. L. Sorgner (A cura di), Ethics of emerging biotechnologies: From educating the young to engineering posthumans (pp. 18-27). Trivent Publishing. https://www.ceeol.com/search/chapter-detail?id=663086
  • Viafora, C. (2018). La sedazione in fase terminale, parte integrante delle cure palliative. Un commento all’art. 2 della Legge 219, 22 dicembre 2017. BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, (1), 39-42. https://doi.org/10.15168/2284-4503-290
  • Viafora,C. (2016). Un laboratorio per la formazione in bioetica. Vent’anni del Corso di perfezionamento dell’Università di Padova. Medicina e Morale, 65(2), 187-197.
  • Viafora, C. (2014). Grandi insufficienze d’organo end stage: Cure intensive o cure palliative. Rassegna di Patologia dell’Apparato Respiratori, 29(4), 221-225. https://www.aiporassegna.it/article/view/413/419
  • Viafora, C.(2013). Comitati etici per la pratica clinica: Ragioni di una proposta e problemi aperti, Bioetica. Rivista interdisciplinare, 21(1), 66-88.
  • Giannini, A., Messeri, A., Aprile, A., Casalone, C., Jankovic, M., Scarani, R., Viafora, C., & SARNePI Bioethics Study Group (2008). End-of-life decisions in pediatric intensive care. Recommendations of the Italian Society of Neonatal and Pediatric Anesthesia and Intensive Care (SARNePI). Paediatric anaesthesia18(11), 1089–1095. https://doi.org/10.1111/j.1460-9592.2008.02777.x
  • Viafora, C. (2004). Il diritto a morire con dignità. Rivista SIMG, (5-6), 13-14. https://www.simg.it/Riviste/rivista_simg/2004/05-06_2004/4.pdf
  • Viafora, C. (1999). Per un’ etica dell’accompagnamento. Bioetica. Rivista interdisciplinare, 7(1), 130-143. https://web.archive.org/web/20220325192050/http://www.desistenzaterapeutica.it/files/etica__accompagnamento_viafora.pdf

Conferenze/convegni:

  • Viafora, C. (2023, 1 dicembre). [Intervento su sistema sanitario nazionale]. In E. Furlan (A cura di), La crisi del servizio socio-sanitario nazionale: Implicazioni etiche [Webinar]. Università degli Studi di Padova. https://mediaspace.unipd.it/id/1_pqncrflq
  • Viafora, C., Becchi, P., Battaglia, L., Bimbi, F., & Zatti, P. (2004, 30 gennaio). [Dibattito sulla procreazione assistita]. In C. Viafora (A cura di), La nuova legge italiana sulla fecondazione assistita: Le scelte di fondo [Panel]. Corso di Perfezionamento in Bioetica, Padova, Italia. https://www.radioradicale.it/scheda/156242
  • Viafora, C., Gallo, A., Bernardi, P., Giron, G., Dan, M., Greco, G., Aprile, A., Zamperetti, N., De Ponte, P., Pegoraro, R., & Senigallia, A. (2002, 23 novembre). [Dibattito sulle cure di fine vita]. In C. Viafora (A cura di), Sulla soglia dell’incertezza: Decisioni ai confini della vita [Panel]. Padova, Italia. https://www.radioradicale.it/scheda/145978

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