Intervista a Laura Palazzani

Laura Palazzani, bioeticista e filosofa del diritto, è professoressa di filosofia del diritto all’Università LUMSA di Roma. Negli corso degli anni si è occupata di svariati temi, riservando particolare attenzione al rapporto tra bioetica e diritto, all’identità sessuale e di genere, al potenziamento umano e all’etica dell’intelligenza artificiale. Il suo approccio alla bioetica e al diritto è di stampo personalista e giusnaturalista.

1) Dai suoi numerosi scritti emerge chiaramente la sua concezione giusnaturalistica del diritto. A suo avviso, come è possibile difendere oggi questa visione del diritto, a fronte dello scetticismo diffuso verso alcuni concetti, come quello di “natura”, e più in generale verso forme di etica oggettiva e universalmente valida?

Da un lato è vero che esiste uno scetticismo sul concetto di natura e sulla conoscibilità in etica di valori oggettivi ed universali, ma dall’altro lato esistono molte linee di pensiero neogiusnaturalistiche a cui si ispirano molte normative e documenti internazionali che riconoscono il primato della dignità umana rispetto al progresso scientifico tecnologico e agli interessi della società (tra questi: Consiglio d’Europa, Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, 1997; La carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 2000; Unesco, Dichiarazione universale di bioetica e diritti umani, 2005). La visione neogiusnaturalistica, ossia il ritorno del giusnaturalismo tradizionale commisurato e adeguato sia linguisticamente che teoreticamente all’attuale contesto pluralistico, ritiene che il diritto non possa e debba essere “neutrale”: in altre parole, il diritto non può incorporare qualsivoglia valore nella considerazione della equivalenza relativistica dei valori, ma deve almeno – in una società secolarizzata e pluralistica – riconoscere la validità ancora oggi del riferimento alla centralità dell’uomo e la sua dignità come “minimo etico” nella ricerca del “massimo etico condivisibile”. È vero che siamo chiamati a interpretare e specificare il significato di dignità umana in ogni contesto applicativo rispetto ai temi emergenti di bioetica nell’ambito della evoluzione della tecno-scienza, ma il punto di partenza non possono che essere i diritti umani fondamentali, espressi nelle dichiarazioni universali dei diritti umani e nelle costituzioni (cfr. art 2 della Costituzione italiana che si riferisce a diritti inviolabili).

Qualche esempio. Nella recente discussione in pandemia sui criteri etico-giuridici per la distribuzione delle risorse scarse per la cura dei pazienti e accesso alle terapie intensive, ha visto il prevalere nella discussione internazionale e nazionale del richiamo alla dignità umana come valore e al diritto fondamentale alla tutela della salute (espresso da normative nazionali e internazionali) in contrapposizione a visioni di stampo utilitaristico, che privilegiavano il criterio dell’età o disabilità come criteri extra-clinici per definire i parametri di inclusione ed esclusione, o la visione libertaria, che proponeva il criterio della capacità di pagare o la posizione sociale come priorità. Altro esempio: la convergenza che si registra, almeno in ambito europeo, sull’umano-centrismo nell’ambito della regolazione della intelligenza artificiale (l’umano-centrismo è richiamato esplicitamente nella bozza di regolamento europeo che si sta ancora discutendo, che riconosce la centralità dell’umano). Non si parla di natura, in modo esplicito, ma il riferimento è implicito.

2) Coerentemente con la sua adesione alla teoria etica del personalismo ontologico, lei difende lo statuto personale dell’embrione umano fin dalla fecondazione. Ritiene che questa posizione sia trasponibile anche sul piano giuridico oppure questo comporterebbe delle conseguenze indesiderabili, ad esempio per quanto riguarda l’aborto o la procreazione assistita?

Bisogna fare una distinzione tra bioetica e biodiritto. La bioetica argomenta, giustifica e fonda la prospettiva morale e antropologica di riferimento. Il biodiritto esige la ricerca, faticosa e complessa, di mediazioni tra le diverse posizioni morali. Si è preso coscienza, progressivamente, nella discussione internazionale e nazionale, della impossibilità e non auspicabilità di una trasposizione diretta dell’etica nel diritto: avanzare questa pretesa annulla il dialogo, strumento necessario in una società pluralistica, che non è più considerata solo “destinataria” delle regole decise dalla politica, ma che è anche chiamata a “partecipare” attivamente alla discussione (si parla della necessità oggi sempre più avvertita di un dibattito pubblico della bioetica). Non è pertanto possibile, oggi, trasporre direttamente l’istanza personalistica dello statuto dell’embrione e del feto nel diritto. Tali proposte, che necessiterebbero la proibizione dell’aborto e della procreazione assistita (della fecondazione in vitro per la scissione dell’atto unitivo e procreativo e della “manipolazione” di embrioni), risulterebbero non accettate dalla società, composta anche da chi chiede accesso all’aborto e accesso – anche sempre più insistente – alla procreazione assistita (si calcola oggi che siano nati con tali tecniche più di dieci milioni di bambini al mondo). È una realtà di cui bisogna prendere atto: questo non significa rinunciare ai propri principi morali, ma trovare il modo, mediante una discussione dialettica con visioni contrapposte (utilitariste e libertarie), di esprimerli trovando faticose e complesse mediazioni. Questo è il ruolo dei comitati di bioetica internazionali (presso l’Unesco), europei (presso commissione europea e consiglio d’Europa) e nazionali: organi nati per informare la società e essere consulenti ai governi per la regolazione. Entro nei temi specifici che mi chiede.

L’aborto. Riaprire la discussione sull’aborto in Italia rischia di fare riemergere schieramenti contrapposti come sta avvenendo in USA, tra pro-life e pro-choice. La legge 194 non è ben conosciuta dai cittadini: spesso è citata come “il diritto di autodeterminazione della donna”, mentre a ben vedere la legge ammette la scelta di interruzione della gravidanza in specifiche circostanze in caso di “serio pericolo per la salute fisica e psichica della donna”. La legge pone dei paletti alla scelta, considerandola una eccezione al principio generale di protezione del nascituro. È  stata cercata una mediazione tra la visione libertaria-utilitarista e la visione personalista, certamente rinunciando a qualcosa da tutte le parti. Quando si parla di aborto va sempre considerato che la scelta della donna ha implicazioni sul nascituro, che è nel suo corpo, ma ha una soggettività seppur non ancora in grado di esprimere i propri interessi. La legge deve bilanciare necessariamente le istanze di chi chiede l’aborto e di chi subisce l’aborto. La legge non “banalizza” l’aborto, riducendolo ad una scelta “qualsiasi”. La legge parla di “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” e istituisce consultori familiari “per far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”, promuovendo sostegni. Tra le righe si legge l’appello alla responsabilità della scelta della donna, ma anche la responsabilità della società: questi aspetti dovrebbero essere meglio conosciuti e applicati. Oggi la scelta abortiva è anche connessa alla diffusione delle diagnosi prenatali genetiche e alla possibilità di diagnosticare patologie, o la predisposizione a patologie, incurabili. Un supporto genetico, psicologico, oltre che etico, nella consulenza alla coppia è molto importante affinché la scelta sia consapevole e responsabile. Il supporto sociale è certamente fondamentale, anche con l’implementazione di assistenza medica e sociale a bambini che nascono con patologie o gravi disabilità. La non accettazione della c.d. “vita sbagliata” nasce da un lato dalla pressione sociale verso il “figlio perfetto”, ma anche dal sentirsi soli e incapaci di affrontare percorsi faticosi.

Sulla riproduzione assistita. Abbiamo una legge in Italia (n. 40/2004) che nella versione originaria si proponeva la protezione dell’embrione (l’art. 1 intende proteggere i diritti del concepito) come parametro centrale nella linea della responsabilità procreativa, intesa come protezione della vita e della famiglia intesa come coppia sposata o convivente eterosessuale: la legge è stata progressivamente modificata da interventi della Corte costituzionale (legittimazione di produrre più embrioni rispetto al limite di tre e impianto contestuale per ragioni di salute della donna, apertura alla fecondazione con donazione di gamete esterno, accesso a coppie a rischio di trasmettere patologie genetiche gravi); si avvertono oggi spinte verso l’apertura alla fecondazione di donne single, di donne vedove, di coppie omosessuali, alla gestazione surrogata. Vedremo come sarà possibile contrastare queste continue spinte verso la liberalizzazione di accesso alle tecniche che favorisce i desideri degli adulti e non considera le conseguenze su nascituro e nato. Una discussione di chi afferma la dignità dell’embrione e del nato, nella ricerca la mediazione, dovrebbe da un lato valorizzare ciò che esiste nella legge e non è applicato (la promozione della ricerca per la prevenzione della sterilità e infertilità che eviterebbe il ricorso alle tecnologie riproduttive; l’autentica informazione alle coppie sui rischi della procreazione medicalmente assistita) e dall’altro lato dovrebbe proteggere adeguatamente i nati dall’uso di tecnologie oggi ammesse (quali la donazione di gamete) a conoscere le origini, almeno genetiche, per la tutela del diritto alla salute.

In altri termini la biogiuridica, a differenza della bioetica, deve fare i conti con le esigenze/bisogni della società in continua trasformazione che spingono alla legittimazione di alcune pratiche rese possibili dallo sviluppo della tecnologia. Questa la principale difficoltà del biodiritto: non essere neutrale in senso relativistico e non imporre in modo assoluto valori non accolti da tutti, ma bilanciare di volta in volta da un lato l’importanza della affermazione di certi valori fondamentali incarnati nella dottrina dei diritti umani e dall’altro le esigenze emergenti sociali. Elaborare una legge che non tiene conto del pluralismo e delle trasformazioni sociali rischia di essere non applicata o trasformata progressivamente (lo vediamo con quanto accade con la Legge 40/2004). Ciò non significa rinunciare ai principi morali fondamentali, ma sforzarsi di tradurli in un modo che, mediato dialetticamente con il pluralismo, sia portatore di valori condivisi dalla società.

3) Molti di coloro che lottano per la legalizzazione dell’eutanasia spesso affermano sia possibile circoscrivere l’accesso alla pratica ad una serie di condizioni specifiche, ovvero a casi drammatici e ben delineati. Alla luce dell’esperienza dei Paesi in cui l’eutanasia è ormai legale da svariati anni, lei ritiene che le salvaguardie poste in atto siano in grado di tenerla sotto controllo oppure crede che uno scivolamento verso altre forme di eutanasia sia inevitabile?

In verità se si guarda alle leggi vigenti che legalizzano l’eutanasia (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Portogallo, Spagna in Europa; Canada, Colombia, Australia, alcuni stati negli USA) non sono limitate a casi drammatici, ma fissano generalmente due condizioni per la legittimazione dell’eutanasia: l’irreversibilità della patologia (come parametro clinico da far verificare a una commissione medica) e la sofferenza insopportabile (come parametro soggettivo espresso insistentemente dal paziente), in un contesto di volontarietà e capacità di intendere e di volere del richiedente rispetto al medico disponibile ad intervenire attivamente per provocare immediatamente la morte. Si tratta di parametri generali che da un lato circoscrivono l’eutanasia rispetto alla mera affermazione della autodeterminazione a prescindere da condizioni (ossia chiedere di morire da parte di un soggetto a prescindere da condizioni patologiche o dalla espressione di sofferenza), dall’altra lasciano aperte possibili interpretazioni da valutare in base alle circostanze. Ad esempio è accaduto il caso in Olanda di una musicista divenuta sorda che ha chiesto l’eutanasia: si tratta di comprendere se la sordità può essere sufficiente a motivare la scelta eutanasica.

Il timore di chi parte dalla difesa del dovere di cura e del diritto alle cure è che la legittimazione di un’assistenza da parte del medico a morire possa “scivolare” in un pendio inclinato verso la legittimazione di altre forme e condizioni di anticipazione volontaria della morte, spostando inevitabilmente il confine oltre il territorio inizialmente arginato e delimitato. Uno sconfinamento che, passo dopo passo, tende a prevalere ed estendersi. Lo scivolamento potrebbe dilatarsi nei confronti di pazienti che non hanno una diagnosi della patologia (essendo una patologia rara) e non hanno una prognosi di inguaribilità, o quantomeno sono in una condizione di ambiguità prognostica, in cui è complesso definire il livello di gravità e irreversibilità della patologia (si pensi al caso di depressione grave o di patologia psichiatrica che compromette la vita ma non la consapevolezza), che potrebbero ritenere legittimo l’accesso all’eutanasia; lo scivolamento dall’ammissione, sulla base dell’insufficiente qualità di vita, dell’eutanasia volontaria all’ammissione di forme di eutanasia non volontaria, in nome della compassione o del consenso presunto del paziente alla sua soppressione (come nel caso dell’eutanasia neonatale, pediatrica, geriatrica).

Un pendio scivoloso che può portare a considerare non degne alcune condizioni di vita in generale (malate, croniche, invalidanti), rendendo più difficile per coloro che le vivono giustificare il diritto ad essere curati e assistiti e il diritto a vivere, e non invece a sentirsi in colpa per vivere, sentendosi di peso per i familiari e la società. In una società con un progressivo invecchiamento della popolazione e a causa della scarsità di risorse in sanità, con la necessità di contenere i costi dell’assistenza sanitaria, la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia, che inizialmente potrebbe essere delimitata per pochi “casi pietosi”, potrebbe spingere la società a ipotizzare vantaggi economici nella riduzione delle cure che sarebbero indispensabili per garantire un’esistenza dignitosa alle persone direttamente coinvolte. La preoccupazione di fondo è che il “diritto di morire” rivendicato dal suicidio assistito e dall’eutanasia, divenga un “dovere di morire” il più rapidamente possibile, come richiesta implicita, situazione questa che verrebbe a pesare maggiormente sui soggetti più poveri e/o privi di affetti familiari. In questo ambito deve essere valorizzata la responsabilità sociale assieme al dovere costituzionale di fornire cure adeguate nei confronti di tutti i malati, in particolare i più vulnerabili.

4) Una tematica che ha affrontato più volte nel corso degli anni è quella legata al rapporto tra sesso biologico e identità di genere. Come è possibile, a suo avviso, rispettare la libera scoperta dell’identità di ognuno, mantenendosi comunque all’interno di parametri oggettivi di identificazione che non cedano al puro arbitrio soggettivo, specialmente quando si parla di minori?

La questione della distinzione tra sesso biologico e identità di genere psico-sociale vede opposte teorie nella letteratura: chi ritiene predominante il sesso biologico ritenendo che la identità di genere psico-sociale ne sia una espressione conseguente (presupponendo la identificazione sesso/genere) e la teoria che ritiene predominante la identità di genere psico-sociale sul sesso biologico (presupponendo la possibile separazione sesso/genere). In effetti la realtà dimostra le lacune del determinismo biologico che presuppone l’identità sesso/genere: si pensi al transessualismo (casi di persone che intendono modificare il corpo biologico di nascita in funzione dell’identità di genere). La legge 164/1982 ha indicato nei medici e negli psichiatri le figure che in casi di transessualismo possono essere in grado di valutare la non arbitrarietà della scelta di modificazione del corpo. Oggi, spinte giurisprudenziali stanno andando verso l’accettazione anche di modificazioni parziali del corpo biologico (anche solo ormonali e non anche chirurgiche) per adeguarlo all’identità di genere. In alcuni Stati si riconosce la possibilità di affermare l’identità di genere come identità anagrafica a prescindere dal corpo biologico (ci si può registrare come maschi o femmine a prescindere dal sesso di nascita). Bisogna prendere atto che il diritto sta procedendo anche in questa direzione.

In particolare vorrei soffermarmi sul fenomeno dei disturbi della differenziazione sessuale, casi oggi più frequenti, dalla nascita (ma anche diagnosticati successivamente): tali casi mostrano l’incongruenza tra alcune componenti genetiche, ormonali, endocrine, gonadiche e morfologiche nel corpo biologico rendendo a volte difficile in contesti medici definire eventuali interventi invasivi e non invasivi sul corpo per modificarlo in senso maschile o femminile: complesso trovare condivisioni tra i medici e genitori sui percorsi. Il CNB nel parere “I disturbi della differenziazione sessuale nei minori: aspetti etici” (2010) ha espresso la rilevanza di una decisione che si basi su parametri oggettivi rilevabili dal corpo biologico e in casi difficili, se possibile, attendere per includere nella valutazione la percezione soggettiva del minore. In questi casi è importante valutare molte dimensioni e, nei limiti possibili, dare predominanza a dati oggettivi e possibilmente includere le percezioni soggettive, considerando l’identità della persona come armonia tra la dimensione biologica, psicologica e sociale. Certamente escluderei, contro la teoria gender, la scelta su basi arbitrarie dei genitori, magari spinti da una ansia di “normalizzazione” del corpo o anche di genitori che intendono fare crescere il figlio in condizioni “intersessuali” o “neutrali” lasciando al minore, divenuto adulto, la possibilità di scegliere di essere maschio o femmina o di rimanere intersessuale. Il corpo biologico non può essere oggetto di arbitrarie manipolazioni soggettive in quanto incarnato in una soggettività che è determinata dalla sessualità. La tesi del volontarismo arbitraristico mostra i suoi limiti anche applicativi: i casi di transessualismo sono vissuti in modo spesso traumatico; i casi di intersessualità sono oggi nella letteratura medica considerati anomalie, disturbi e disordini del regolare sviluppo del corpo. L’elemento di maggiore criticità delle teorie gender riguarda il fatto che il corpo non sia facilmente, né “giocosamente” plasmabile. L’esaltazione del “terzo genere” o del “genere neutro” nella ricerca della “in-differenza sessuale”, in verità, impedisce il nostro processo di identificazione, perché il corpo non è amorfo, ma veicola un’identità che è costitutiva del nostro essere. Volere vivere l’ambiguità maschile/femminile o oscillare tra maschio e femmina in fondo presuppone ciò che si intende negare o superare, la differenza sessuale. Si cerca di annientare la natura, ma la si riafferma implicitamente.

5) Il concetto di salute è oggi inteso in senso molto ampio, come una forma di benessere che comprende componenti sia biologiche che psicologiche e relazionali. Questo rischia però di ampliare eccessivamente il significato del termine, specialmente quando si considerano anche le possibilità offerte dagli interventi tecnologici sul corpo umano, dai potenziamenti genetici e farmacologici alle forme di integrazione uomo-macchina. A suo avviso, è possibile adottare un concetto olistico di salute e allo stesso tempo porre dei limiti a ciò che i cittadini dovrebbero poter chiedere alla medicina e alle biotecnologie?

Dobbiamo sempre più abituarci ad un concetto olistico di salute che sta ora estendendosi anche al benessere nel rapporto dell’uomo con animali e ambiente (one health che include non solo la dimensione psicologica e i determinanti sociali, ma anche i determinanti ambientali della salute): siamo sani quando acquisiamo un equilibrio tra la dimensione fisica, psicologica, sociale e ambientale. Un obiettivo difficile da raggiungere e che richiede l’allargamento della riflessione interdisciplinare per capire cosa significa curare: medicina, psicologia, sociologia, veterinaria, ecologia. Il problema si pone anche in rapporto al difficile equilibrio tra terapia e potenziamento, ossia intervento che abbia come fine la cura e intervento che abbia come fine la alterazione di un individuo sano o la sostituzione con la macchina. Esistono certamente zone grigie tra terapia e potenziamento difficili da definire. Ad esempio, quando ritenere necessario utilizzare l’ormone della crescita per bambini che non crescono seguendo gli standard sociali e i percentili definiti: certamente usare l’ormone della crescita per un bambino che sul piano medico ha una crescita regolare (considerando altezza dei genitori e standard generali della società) diviene potenziamento. La medicina estetica per certi aspetti è un potenziamento, ma se usata per “fare sentire meglio” il soggetto nelle relazioni interpersonali e sociali è terapeutica; non quando interviene in modo eccessivo, spesso anche a causa di alterate percezioni di sé o di un asservimento a standard estetici imposti estrinsecamente dalla società. L’uso di farmaci, sperimentati a scopo terapeutico per la demenza o l’ansia, per diventare più intelligenti o felici è un potenziamento per raggiungere condizioni desiderate o adeguarsi a standard imposti da una società competitiva, o forse anche spinti da esigenze costruite dal mercato farmacologico.

Bisogna mantenere la visione di salute ampia includendo la dimensione fisica, psichica e sociale, ma bisogna anche definire la distinzione tra terapie (che include le dimensioni integrate) e potenziamento, in quanto gli interventi sono nel primo caso proporzionati nel bilanciamento benefici e rischi, nel secondo sproporzionati. La sproporzione dipende dal fatto che i rischi sono elevatissimi in quanto gli interventi, farmacologici e tecnologici, non sono sperimentati per finalità potenziative: ci si sottopone a interventi con un fine che risponde a desideri soggettivi o indotti dalla società a fronte di rischi di danni anche permanenti e irreversibili, solo per alterare delle funzioni. È importante valutare caso per caso; è importante essere consapevoli delle spinte sociali verso il potenziamento delle capacità fisiche, mentali, emotive e morali e dei pericoli che ne possono conseguire per la salute individuale.

Approfondimenti:

Libri:

  • Palazzani, L. (2022). La filosofia per il diritto. Teorie, concetti, applicazioni (2nd ed.). Giappichelli.
  • Palazzani, L. (2020). Tecnologie dell’informazione e intelligenza artificiale. Sfide etiche al diritto. Studium.
  • Palazzani, L. (2017). Cura e giustizia: Tra teoria e prassi. Studium.
  • Palazzani, L. (2017). Dalla bio-etica alla tecno-etica: Nuove sfide al diritto. Giappichelli.
  • Palazzani, L. (2015). Il potenziamento umano. Tecnoscienza, etica e diritto. Giappichelli.
  • D’Agostino, F., & Palazzani, L. (2013). Bioetica. Nozioni fondamentali (2nd ed.). La Scuola.
  • Palazzani, L. (2011). Sex/gender: Gli equivoci dell’uguaglianza. Giappichelli.

Articoli/Paper:

Conferenze/convegni:

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