Intervista a Patrizia Borsellino

Patrizia Borsellino, laureata in Filosofia e in Giurisprudenza, è stata professore ordinario di Filosofia del diritto e di Bioetica presso diverse sedi universitarie e da ultimo presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove ha ricoperto, tra i vari ruoli, quelli di direttore del Dipartimento dei Sistemi giuridici, di direttore del Master in Bioetica e diritto per la pratica clinica e di componente del Comitato etico dell’Ateneo. Attualmente è componente anche del Comitato etico dell’Università degli Studi di Milano e membro del Governing Council dell’International Chair in Bioethics. Autrice di numerosissime pubblicazioni sui temi teorico-giuridici e, soprattutto, sui temi al centro della bioetica e del biodiritto, ha svolto un’intensa attività volta alla promozione e alla diffusione della cultura bioetica anche in contesti extra accademici, operando all’interno di organismi, quale il Comitato per l’etica di fine vita, di cui è presidente, e di comitati scientifici di realtà associative, quali il Vidas di Milano, o “I Braccialetti bianchi” di Genova, impegnati nella promozione dei diritti dei malati alla fine della vita. Ha partecipato, in qualità di esperto, in diverse legislature, alle audizioni nelle Commissioni della Camera dei deputati e del Senato, in relazione ai disegni di legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate sui trattamenti e in relazione ai disegni di legge in sul suicidio assistito e sull’eutanasia.

1) Nei suoi scritti lei critica spesso quelle concezioni assolutiste del diritto che vorrebbero imporre un’unica etica a tutti gli altri, proponendo al contrario un approccio di tipo procedurale e di stampo liberale, con al centro il principio di autonomia. Non si potrebbe sostenere tuttavia che ogni legge abbia dei contenuti sostanziali e sia specchio di una specifica etica che viene inevitabilmente imposta agli altri? Penso, ad esempio, a quando si decide di escludere determinati esseri viventi dallo statuto di persona o ancora all’inserimento di certe pratiche all’interno del SSN.

Nei primi dieci, forse quindici anni del dibattito, quale si è andato svolgendo nel continente europeo e, soprattutto, in Italia, è prevalsa l’idea che considerare gli interventi sulla vita dal punto di vista etico significasse dare evidenza alle loro implicazioni morali. Vi è stata, invece, diffidenza riguardo all’entrata in campo del diritto in questo ambito tematico, dovuta anche, se non solo, alla convinzione che per orientare i comportamenti, ad esempio, nelle delicate decisioni di inizio vita, oppure in quelle di fine vita, fossero sufficienti i criteri offerti dalla propria visione morale, per lo più elevata al rango di unica “Morale” con la “M” maiuscola. Una sopravvalutazione della morale, quindi, alla quale si è accompagnata, soprattutto in una componente del mondo medico e scientifico, la rappresentazione negativa del diritto come “pesante marchingegno sanzionatorio”, volto a frapporre ostacoli allo svolgimento della ricerca e alle sue applicazioni. Ciò non ha, tuttavia, impedito il crescere e il radicarsi della consapevolezza circa l’irrinunciabilità del ricorso agli strumenti del diritto in un campo in cui, più che in ogni altro, dato il forte impatto umano ed esistenziale delle questioni in gioco, sono in primo piano sia la tutela dei diritti, sia la prevenzione e la composizione dei conflitti. Non vi è stata però convergenza sul modello di regolazione giuridica da attuare, poiché, se, da una parte, non è tramontata la fiducia nella meritevolezza di un’unica visione morale sostanziale, destinata a trovare nel diritto lo strumento per recepirla e affermarla, si è, d’altra parte, andato delineando sul piano teorico, e ha ottenuto significativi riscontri sul piano normativo, il diverso modello che, muovendo dalla considerazione del pluralismo come valore da tutelare, mira, attraverso il diritto, a contemperare, al più alto grado possibile, la garanzia della libertà degli individui con la soddisfazione di irrinunciabili esigenze sociali, riservando ai soggetti capaci di autonomia le scelte e le decisioni che direttamente li riguardano, ma ponendo anche limiti rigorosi alle scelte e alle azioni individuali, quando ciò si rende necessario per impedire che altri soggetti siano danneggiati o non possano veder soddisfatti loro legittimi interessi.

Riguardo a tale modello, la cui difesa ha trovato spazio anche nel mio personale percorso di riflessione, viene, nella domanda, sollevata la questione se, attraverso la sua adozione, si eviti davvero l’imposizione di una specifica visione etica veicolata attraverso i contenuti propri di ogni legge che disciplini un ambito dell’attività umana. Il dubbio sul punto può essere alimentato dal fraintendimento della qualificazione di “procedurale”, data al modello che avvalora l’idea del diritto come «regola di compatibilità» tra valori differenti, piuttosto che come «regola di preponderanza» di un solo valore o sistema di valori, per usare due formule coniate, già sul finire degli anni Ottanta, da Stefano Rodotà. Il fraintendimento al quale mi riferisco è quello nel quale si incorre se si pensa di trovarsi di fronte alla teorizzazione di un modello di diritto eticamente neutrale. Se è vero che si tratta di un diritto volto ad arginare le pretese assolutistiche di imporre a tutti per legge una determinata visione morale, sul presupposto che vi sia un’unica, incontestabile “Verità” morale, che non lascia spazio a scelte che vi si distanzino, in materia di famiglia, di realizzazione personale, di conclusione dell’esistenza, è altresì vero che non si tratta affatto di un diritto compatibile con qualunque valore, bensì, di un diritto che si iscrive in un ben definito orizzonte etico. Quello nel quale i soggetti istituzionali, investiti della produzione giuridica ai vari livelli dell’ordinamento e, in particolare, della definizione dei contenuti delle leggi, trovano i criteri orientatori delle decisioni da tradurre nelle norme, in principi e in valori, collocati, come sostenuto già da Hugo Tristram Engelhardt e, in Italia, da Uberto Scarpelli, a un livello della morale ulteriore rispetto a quello che accoglie le convinzioni individuali o collettive circa le scelte e le azioni da considerarsi moralmente apprezzabili nei diversi ambiti del vivere umano. Vi è senz’altro il principio che, nell’attribuire valore all’autonomia individuale, orienta verso soluzioni normative funzionali alla realizzazione dei piani di vita dei soggetti coinvolti, perché improntate all’idea che ai valori, alle convinzioni e alle preferenze dei soggetti, ovviamente quando sono in grado di esprimerle, debba essere assegnato il maggior spazio possibile consentito dalle circostanze e dall’assenza di un prevedibile danno ad altri. Ma vi sono anche i principi di uguaglianza e di solidarietà, che supportano scelte normative mirate a ridimensionare situazione di potere e condizionamenti culturali, economici e sociali, in presenza dei quali è illusorio qualunque esercizio di autonomia. E vi è, infine, il principio e il connesso valore della responsabilità, che, in presenza di concreti problemi da risolvere e di rilevanti interessi da tutelare, richiede al legislatore provvedimenti esenti da pregiudiziali ideologiche e supportati da buone ragioni di principio, non meno che dalla più approfondita considerazione delle loro prevedibili ricadute sul piano dei fatti.

Si tratta, a ben guardare, dei principi e dei valori, ben inseriti nella cornice di un’organizzazione sociale e politica laicamente inclusiva, quale quella disegnata dalla Costituzione italiana, che hanno già improntato molti dei più significativi interventi del Legislatore in materie bioeticamente rilevanti, dalla legge 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, alla legge 194/78 che ha disciplinato l’interruzione della gravidanza, alla più recente legge 219/2017, che ha definito i confini della relazione di cura. E vi è da auspicare che a quei principi e a quei valori, sia, appena ce ne saranno le condizioni politiche, improntata anche la regolazione giuridica di altre materie in attesa di buone leggi, a cominciare dalla regolazione dell’aiuto a morire.

2) Un argomento a cui lei ha dedicato un certo spazio nei suoi scritti e interventi è quello delle mutilazioni genitali. In particolare, ho trovato interessante l’uguale trattamento che lei riserva alle mutilazioni genitali femminili e quelle maschili, come la circoncisione. A suo avviso, come mai queste pratiche vengono generalmente valutate diversamente, anche dalla giurisprudenza, e come si può intervenire a riguardo?

Pratiche antichissime, le cui radici si trovano nell’antico Egitto, le mutilazioni genitali femminili, non riconducibili a una specifica tradizione religiosa, bensì a culture a impronta maschilistico-tribale, consistono in interventi che comportano la rimozione, totale o parziale, dei genitali femminili esterni o altre alterazioni di questi organi, per motivi culturali o ragioni non terapeutiche. Tali interventi, eseguiti per lo più su bambine, sono, nelle forme più invasive, causa di indicibili sofferenze fisiche e di traumi psicologici, con gravissime ripercussioni sulla vita sessuale ma, ancora prima, sulla salute. Le mutilazioni genitali femminili hanno, a tutt’oggi, l’ampia portata di fenomeno globale. A esserne direttamente interessati sono, infatti, numerosi paesi africani, e, se pur con minore incidenza, alcuni paesi del Golfo Persico e alcune aree del Sudest Asiatico, nei quali, secondo rilevazioni dell’Unicef, sarebbero più di duecento milioni le bambine e le donne sottoposte a tali pratiche nella forma più distruttiva, l’infibulazione. Esse rappresentano, tuttavia, un problema con cui anche i Paesi dell’area occidentale, dal Nord America, all’Australia, all’Europa, sono stati chiamati a confrontarsi da diversi anni a questa parte, soprattutto a seguito dei consistenti fenomeni migratori, e anche a fronte della richiesta, formulata da famiglie di immigrati, di poter perpetuare la messa in atto di tali pratiche, trovando supporto nelle strutture assistenziali del Paese di accoglienza.

L’intenso dibattito svoltosi nel nostro, come nel contesto di altri Paesi dell’Europa e dell’Occidente, ha alimentato e visto prevalere la tesi che le mutilazioni genitali femminili, qualunque ne sia la modalità e l’ambito di attuazione, costituiscono pratiche da condannare sul piano morale e da sanzionare sul piano giuridico. Una linea restrittiva, questa, adottata anche in Italia, dove, con la legge n. 7/2006, è stato introdotto nel Codice penale l’art. 583bis, che punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chi, senza esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili.

Tra gli argomenti addotti a sostegno della posizione rigorosamente proibitiva, vi è stato quello del contrasto delle mutilazioni genitali femminili con l’irrinunciabile principio che vieta qualunque lesione dell’integrità fisica, che non abbia motivazioni sanitarie; la loro estraneità rispetto agli atti al cui compimento il medico è legittimato o tenuto, secondo le previsioni della deontologia e del diritto, che li circoscrivono alle finalità di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione e sollievo dal dolore; l’incompatibilità, nei prevalenti casi in cui riguardano bambine, con il benessere psico-fisico (e la promozione della libertà) del minore, ai quali deve essere improntato l’esercizio della rappresentanza, anche e soprattutto quando sono in gioco interventi sul corpo. A molti, e io mi pongo tra questi, è apparsa, inoltre, del tutto priva di fondamento la strategia giustificativa volta a legittimare le mutilazioni genitali in quanto funzionali al mantenimento dell’identità culturale degli individui appartenenti a una comunità, trattandosi di pratiche la cui attuazione non è, in via di regola, scelta, ma, in nome della tradizione, imposta dal gruppo di appartenenza a individui ai quali non è riconosciuto il diritto di esprimere, riguardo alle pratiche stesse, la loro volontà, ed eventualmente di dissentire.

Si sbaglierebbe, tuttavia, a credere che la motivazione culturale sia stata considerata irrilevante, al fine di conferire ammissibilità morale e liceità giuridica, nel caso di “tutte” le pratiche che comportano alterazioni irreversibili dell’integrità corporea senza motivazioni terapeutiche. Ciò non è, infatti, avvenuto nel caso della circoncisione, pratica anch’essa di origini antichissime, attuata (da sempre) all’interno della comunità ebraica e assai diffusa nel mondo musulmano, ma presente anche presso diverse comunità sia cristiane, sia non monoteiste in diverse aree del mondo, della quale sono destinatari quasi esclusivamente minori, o nati da pochi giorni, secondo la tradizione ebraica, o, soprattutto nel contesto islamico e in Paesi dell’Africa, anche bambini di età più avanzata. A differenza delle mutilazioni genitali femminili, la circoncisione maschile non è stata, negli anni passati, e non è nemmeno nel presente, oggetto di una condivisa valutazione critica, né di iniziative volte a limitarne o eliminarne la messa in atto con gli strumenti del diritto. Al contrario, è stata considerata, anche nel contesto italiano, pratica non solo ammissibile sul piano morale, ma anche legittima sul piano giuridico, in quanto – come si legge in un documento del 1998 del Comitato Nazionale per la Bioetica, “manifestazione fideistico-rituale”, rientrante tra le forme di esercizio del culto, garantite dall’art. 19 della Costituzione italiana. E, si può aggiungere, in quanto pratica la cui incidenza sull’integrità fisica non può essere equiparata a quella delle mutilazioni genitali femminili.

Nonostante la perdurante resistenza a estendere alla circoncisione la diffusa disapprovazione che investe gli interventi mutilatori eseguiti sugli organi genitali femminili, non sono, però, a ben guardare, solidi gli argomenti che dovrebbero giustificarla. Non lo è quello della minor incidenza sull’integrità corporea, posto che, anche nel caso della circoncisione, sono state documentate, in tutt’altro che isolate ipotesi, gravi complicanze, quali emorragie, infezioni, fistole uretrali, ritenzione urinaria, necrosi del glande, fino alla morte. E non lo è quello che punta sulla motivazione religiosa, o sul rispetto che si deve a ritualità importanti per definire il profilo identitario e per suggellare l’inserimento del bambino nella comunità di appartenenza, posto che si tratta del medesimo argomento di cui si contesta l’idoneità a legittimare la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Non vi sono, quindi, buone ragioni per non considerare anche la circoncisione un atto lesivo dell’integrità corporea in assenza di indicazioni di natura terapeutica, non compatibile con il principio etico, deontologico e giuridico che condiziona al perseguimento del benessere psico-fisico l’attuazione di qualunque intervento sul corpo del minore. Né ve ne sono per ritenere che la motivazione cultural-religiosa possa fornire, nel caso della circoncisione, il fondamento giustificativo che viene, a buon diritto, escluso nel caso delle pratiche mutilatorie in precedenza considerate.

Dove mancano le buone ragioni continua, tuttavia, sovente a operare il pregiudizio. Ed è proprio soltanto il pregiudizio positivo nei confronti di tradizioni culturali e religiose sentite come più familiari e vicine e, in quanto tali, tollerate, a ostacolare, nel caso della circoncisione, il deciso cambio di prospettiva, per il quale vi sono tutti i presupposti sul piano etico non meno che su quello giuridico.

3) Passando al ruolo del diritto nella procreazione, come pensa si possano bilanciare la sempre maggiore libertà procreativa, ampliata notevolmente grazie, ad esempio, alla fecondazione eterologa, e le responsabilità verso i figli nati tramite queste forme di procreazione?

Le tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno inferto un duro colpo alla convinzione diffusa e rimasta a lungo radicata, che la nascita, non diversamente dalla morte, rappresentino fenomeni il cui verificarsi dipende, come si dice, dalla “Natura”, e siano, nella sostanza, sottratti al controllo umano. Il connotato della naturalità si è, infatti, incrinato nel momento in cui si sono rese disponibili metodiche contraccettive volte a inibire l’instaurarsi di una gravidanza o sempre più efficaci e sicure procedure chirurgiche o farmacologiche per l’interruzione di un processo riproduttivo già avviato e, per converso, quando si è profilata la possibilità di far nascere un essere umano senza ricorrere a un rapporto sessuale, grazie a un insieme di tecniche che consentono di superare gli ostacoli che si frappongono alla procreazione in presenza di patologie che incidono sulla capacità riproduttiva, ma anche di altre condizioni, quali, ad esempio, l’essere portatori di malattie genetiche trasmissive, oppure dall’assenza di un partner o dall’orientamento omosessuale. Una pratica innovativa, con forti implicazioni sul piano sociale, quindi, con la quale si sono poste le premesse per un (deciso) cambio di sguardo sull’intero fenomeno riproduttivo e sui soggetti che ne sono interessati, sullo sfondo, per un verso, del crescente rilievo riconosciuto al perseguimento degli obiettivi procreativi nel progetto di vita di uomini e donne, e, per altro verso, delle incisive trasformazioni che, negli ultimi decenni, hanno investito la famiglia e la filiazione, sul piano sociale e sul piano normativo.

Sono state, però, proprio le potenzialità innovative, o, addirittura, rivoluzionarie, di una pratica suscettibile di ridisegnare il fenomeno riproduttivo, portandolo al di fuori dei confini della naturalità, per quanto attiene sia alle modalità, sia ai contesti della sua attuazione, a suscitare resistenze e ad orientare, in diversi contesti, verso un inquadramento sul piano teorico e una disciplina sul piano normativo volti ad enfatizzarne i rischi e a delimitarne il più possibile l’ambito applicativo. Un osservatorio emblematico è quello del nostro Paese, nel quale, dopo molte difficoltà, si è arrivati nel 2004 a una legge, la n. 40, assai restrittiva, che, dopo aver qualificato come “terapia” per risolvere i problemi riproduttivi derivanti da sterilità e infertilità una pratica, come la PMA, che peraltro non rimuove le cause patologiche che le determinano, vi individua una sorta di “extrema ratio”, accessibile solo alle coppie eterosessuali coniugate o stabilmente conviventi, nell’attuazione della quale il ricorso alla fecondazione in vitro sia contemplato solo in casi di assoluta necessità e, secondo le previsioni originarie della legge, poi dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, anche in questi casi, senza sacrificio di embrioni, e, comunque, senza fare ricorso a gameti provenienti da soggetti estranei alla coppia, vale a dire, senza dare spazio alla cosiddetta PMA di tipo eterologo. Non è difficile intravedere dietro gli orientamenti restrittivi di una legge dalla forte connotazione ideologica, la svalutazione delle tecniche di PMA, complessivamente considerate, per la loro “artificialità” o “innaturalità”, vale a dire, in quanto modalità procreative non rientranti nel “Disegno della Natura”, così come, è la tesi dell’intangibilità della vita dell’embrione, da considerarsi persona, o, comunque, soggetto meritevole di essere trattato come persona, a supportare il disfavore per il ricorso alla fecondazione in vitro. Nel caso della PMA di tipo eterologo, in altri contesti qualificata come PMA con dono di gameti, la riprovazione sul piano morale e la proibizione, inizialmente sancita sul piano giuridico, hanno visto farsi strada, accanto ai precedenti, anche l’argomento della sua prevedibile incidenza negativa sulla stabilità della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, o, quantomeno, come stabile unione eterosessuale, nonché sulla condizione del bambino, esposto al rischio di danni sia fisici, sia psicologici, a causa della modalità con cui è venuto al mondo. Di qui la tesi che il ricorso a tali modalità si traduca in un esercizio di libertà irresponsabile o non sufficientemente responsabile, perché non accompagnato dalla preoccupazione per le sue ricadute sul benessere del minore, né dalla volontà di farnese pienamente carico.

Ma vi sono buone ragioni per prospettare, nel caso della genitorialità realizzata attraverso il ricorso alla PMA con dono di gameti, la problematica tensione tra scelta riproduttiva e responsabilità verso il nato, di cui non ci si preoccupa, invece, nel caso di procreazione “naturale”, soprattutto se nel contesto della famiglia monogamica eterosessuale, ma anche nel caso di nascita al di fuori di una relazione di coppia? La risposta passa per il rilievo che la stereotipata rappresentazione di coloro che ricorrono alla fecondazione assistita di tipo eterologo come soggetti per i quali la soddisfazione dei desideri personali conta di più delle scelte consapevoli, non tiene conto della circostanza che essi intraprendono percorsi assai gravosi sotto il profilo clinico, finanziario ed esistenziale, in presenza dei quali è ragionevole ipotizzare che la motivazione a formare una famiglia, e la consapevolezza circa le responsabilità che ne discendono nei confronti dei figli, non sia inferiore, anzi, se possibile, maggiore che nel caso della genitorialità “naturale”. D’altra parte, mentre non è affatto provato che la nascita o l’inserimento in un tipo di famiglia diversa da quella tradizionale comporti necessariamente un pregiudizio per la prole, si può sostenere con fondamento che la procreazione assistita, anche di tipo eterologo, possa addirittura aumentare, per chi nasce, le chances di un’esistenza in buone condizioni fisiche, grazie, prima di tutto, agli accurati controlli sul processo riproduttivo e sul bambino dopo la sua nascita. Per quanto riguarda poi il danno psicologico, tanto più il minore potrà esserne preservato, quanto più si comprenderà che è venuto il momento di superare il pregiudizio positivo a favore della concezione puramente biologistica della genitorialità, valorizzando la genitorialità sociale, incentrata sulle relazioni affettive. Nel contesto della piena legittimazione delle famiglie formatesi attraverso un percorso di PMA con dono, verrà, infatti, meno l’esigenza che queste debbano ricorrere al segreto per potersi collocare nelle comunità di riferimento. Si potranno così instaurare relazioni sempre più trasparenti e funzionali a un accresciuto benessere psicologico dei minori, messi in grado di costruire positivamente il loro vissuto, al di fuori di ogni finzione.

4) Quando si parla di eutanasia ritorna spesso l’argomento del pendio scivoloso. Nei Paesi in cui la pratica è stata legalizzata, in aggiunta ad un allargamento delle leggi, si è effettivamente verificato un progressivo aumento della percentuale di richieste di eutanasia accettate e delle morti per eutanasia ed è anche stata segnalata la presenza di alcuni casi non pienamente conformi alla legge in cui però i medici sono stati assolti o non perseguiti. A suo avviso, il pendio scivoloso rappresenta un problema e, se sì, può essere realmente contrastato?

Sullo sfondo del crescente interesse rivolto, da diversi anni a questa parte, nel contesto italiano, alle questioni e alle decisioni di fine vita, il confronto, realizzato sul piano della bioetica e del biodiritto, ma esteso anche all’ambito politico, si è caratterizzato per l’emergere di posizioni favorevoli all’aiuto a morire nella forma dell’eutanasia, non meno che del suicidio assistito, se e in quanto funzionali a garantire, a un individuo in condizioni di insostenibile sofferenza, di poter concludere la propria vita senza essere leso nella sua dignità. D’altra parte, ha continuato a trovare sostenitori, soprattutto ma non solo tra esponenti della cultura e dell’associazionismo cattolico, la forte opposizione non tanto nei confronti di un singolo atto, quanto piuttosto di qualunque forma di riconoscimento giuridico della liceità dell’aiuto a morire, pur assoggettato a rigorosi limiti e condizioni. La regolazione giuridica e, in particolare, legislativa dell’aiuto a morire, è stata avversata asserendone l’incompatibilità con il principio, quello dell’indisponibilità della vita, che alcune letture della Costituzione pretendono, pur in assenza di espressa menzione, in questa sancito nell’art. 2. Si è, inoltre, prospettato il rischio di dettare regole generali che non tengano conto della specificità dei casi singoli, né garantiscano uguale considerazione degli interessi di tutti i soggetti in gioco e, più in generale, dell’intero corpo sociale. E, soprattutto, è stato proposto l’argomento del “pendio scivoloso”, prefigurando l’inquietante scenario dell’inesorabile passaggio dall’uccisione pietosa del malato incurabile e sofferente, che ne ha fatto insistente richiesta, all’uccisione di soggetti che si trovano in una ben diversa situazione di “sofferenza”, oppure addirittura a uccisioni, impropriamente qualificabili come eutanasiche con riguardo alla modalità, non dolorosa, di causazione della morte, di soggetti che non hanno chiesto di morire, ma la cui morte può, a diverso titolo, risultare vantaggiosa per la famiglia, per l’assistenza sanitaria o per la società intera.

Oltre all’ipotesi, paradossale ma frequentemente messa in campo, dell’adolescente in buona salute che chiede di morire perché in preda all’insostenibile angoscia causata da una delusione d’amore, si menzionano diverse categorie di soggetti vulnerabili destinati a divenire impropriamente destinatari di interventi eutanasici, dal soggetto in stato vegetativo permanente, al malato cronico anziano con scarse possibilità economiche, ospite scomodo per l’ospedale sovraffollato e peso insostenibile per la famiglia, al neonato gravemente malformato. L’eutanasia sarebbe, in altri termini, una sorta di miccia, destinata a travolgere, nell’esplosione a cui darebbe luogo, una volta innescata, grazie soprattutto all’intervento del diritto con una specifica disciplina, tutti quei soggetti deboli di cui la società, in preda al mito del produttivismo e dell’efficientismo, sembra sempre meno disposta a farsi carico.

Dal momento che quello del “pendio scivoloso” è un argomento di tipo consequenzialistico, vale a dire un argomento che, per valutare o, meglio, in questo caso per svalutare una prassi come l’eutanasia e, in particolare, la sua disciplina per via legislativa, guarda ai prevedibili effetti o alle ricadute della sua introduzione, torna senz’altro utile rivolgere attenzione ai contesti, primi fra tutti i Paesi Bassi, nei quali, da più tempo, la legge è intervenuta a legalizzare l’aiuto a morire. L’osservatorio al quale fare riferimento deve però essere rigorosamente circoscritto ai rapporti annuali sull’eutanasia, redatti dalla Commissione appositamente nominata (l’ultimo si riferisce al 2022), dai quali emerge che non si è affatto verificata la temuta deriva verso forme di “soppressione” eutanasica oltre i rigidi confini stabiliti dalla legge e che i casi, percentualmente assai limitati, nei quali ciò è avvenuto hanno comportato l’entrata in campo di dure risposte sanzionatorie. Fermo restando che l’allargamento dell’eutanasia ad esempio ai minori è stato previsto, subordinatamente al rispetto di stringenti criteri, solo nei casi di bambini in condizioni disperate, per preservarli da sofferenze atroci e insopportabili.

Ciò di cui ci si dovrebbe, più opportunamente, preoccupare è invece la messa in atto di azioni di “aiuto” nel morire realizzate in maniera non trasparente e in assenza di adeguati controlli sulla sussistenza delle condizioni che le possono rendere moralmente giustificate, quali la volontà, in via di regola, di colui al quale sono destinate, e la presenza di una condizione di sofferenza che l’interessato stesso ritiene di non essere più in grado di tollerare. È in questo scenario che si profila il rischio di abusi, decisioni arbitrarie e, potremmo aggiungere, ingiustificate disparità di trattamento. Lungi dal dare luogo a pericolose derive, la disciplina legislativa sull’aiuto a morire, sia nella modalità del suicidio assistito, sia dell’eutanasia, di cui ancora non dispone il nostro Paese, nonostante le sollecitazioni ripetutamente rivolte al Parlamento dalla Corte costituzionale a partire dal 2018, rappresenterebbe proprio lo strumento attraverso il quale arginare il pericolo di quelle derive, garantendo al meglio sia i soggetti che solo attraverso l’aiuto a morire possono liberarsi dalla prigionia di una sofferenza divenuta per loro insostenibile, sia coloro che pongono in essere gli atti di aiuto. I primi, definendo percorsi idonei ad accertarne le volontà e la preliminare messa a loro disposizione di altre strategie di risposta alla sofferenza, quali le cure palliative e la sedazione profonda. I secondi, delineando con chiarezza distribuzione di ruoli e procedure, così da fornir loro sicuri criteri di orientamento, e prevedendo, altresì, a ben definite condizioni, anche la possibilità dell’obiezione di coscienza.

Per le buone leggi, nelle quali i diritti trovino il loro fondamento e la garanzia della loro attuazione, occorrono sensibilità etiche e politiche di cui, negli ultimi tempi, il Legislatore italiano non è stato capace di dare prova. Ma ci sono gli esempi virtuosi di Paesi, anche culturalmente vicini all’Italia, come la Spagna, che ha disciplinato la materia nel 2021, e c’è la spinta che viene dal basso, dalla società civile, in presenza della quale è ragionevole pensare che il risultato sarà raggiunto, anche se forse non in tempi brevi, come, invece, sarebbe auspicabile.

5) Venendo infine alla questione della donazione degli organi, alcuni autori, nel corso del tempo, hanno proposto di aprire la strada a forme di mercato controllato per aumentarne la disponibilità. Lei considera convincenti queste proposte?

La Convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico d’organi (2014) e i provvedimenti finora adottati dal nostro Paese hanno confermato il forte radicamento, nel contesto europeo, in generale, e in quello italiano, in particolare, dell’idea che il sistema dei trapianti di organo non possa essere organizzato se non su presupposti volontaristici e altruistici e che il fine di incrementare il numero dei trapianti, e quindi anche di salvare vite umane, non possa di per sé giustificare la commercializzazione degli organi. Ma questa non è una prospettiva unanimemente condivisa.

Argomenti a favore del mercato degli organi sono, infatti, stati addotti nel Paese a cultura islamica, l’Iran, che è il solo ad avere da tempo introdotto un sistema di vendita del rene organizzato dallo Stato, mentre nel contesto occidentale la tesi della commerciabilità ha trovato sostenitori in Paesi dell’area anglosassone e, soprattutto, negli Stati Uniti. In questi, anche il Consiglio sugli Affari etici e giuridici dell’Associazione medica americana, già in una risoluzione del 1995, si è pronunciato a favore di un sistema incentrato sulla messa a disposizione di incentivi o, per richiamare una formula sovente utilizzata, sulla “rimozione dei disincentivi”, quali sconti fiscali, un’assicurazione sanitaria a vita, istruzione gratuita ecc., ritenuti suscettibili di influire positivamente sulla decisione degli individui di mettere a disposizione un loro organo, sia in vita sia dopo la loro morte.

A fronte di tali posizioni, si è riusciti nell’intento di realizzare modalità di vendita eticamente configurate, idonee ad incrementare la disponibilità degli organi, senza dar luogo a forme di sfruttamento? Verso la risposta negativa orienta la considerazione che il mercato degli organi provenienti da soggetti viventi organizzato dallo Stato, introdotto per legge in Iran dagli anni Novanta, non ha eliminato forme di contrattazione privata, né ha consentito un equo accesso al trapianto anche ai più poveri bisognosi di organi, mentre, per altro verso, non ha impedito che continuassero a essere solo i più poveri e disagiati a fornire gli organi da trapiantare.

Per quanto riguarda, poi, il sistema incentrato sulla messa a disposizione dei “donatori” di organi di incentivi, un conto è pensare ad adeguati rimborsi a copertura delle spese mediche o per il mancato guadagno conseguente alla sottoposizione all’intervento, così come a copertura di spese dovute a eventuali complicanze causate dal prelievo dell’organo, un altro pensare a ulteriori vantaggi comparabili a veri e propri profitti. Nel caso di questi ultimi, la compravendita, fatta uscire dalla porta, finisce per rientrare dalla finestra, come è avvenuto negli Stati Uniti, dove sono state avviate iniziative di “aiuto” al dono, con la determinazione di “premi” in denaro, che si sono configurate come veri e propri prezzi per gli organi (soprattutto il rene e il fegato). Quella che punta sugli incentivi per rispondere alla carenza degli organi da trapiantare avvalendosi (in misura maggiore) anche della risorsa degli organi da vivente, è, a ben guardare, una strategia che si presenta come ”moralmente” più rassicurante, ma che, al di là del fatto di sollevare non infondati dubbi relativi all’efficacia sul piano pragmatico, non si sottrae, dato l’incombente rischio di travestimento del prezzo da incentivo, alle obiezioni di principio che la commercializzazione incontra sul piano etico, ancor prima che su quello giuridico, prima fra tutte all’obiezione di perpetuare, in violazione dei principi della giustizia retributiva e distributiva, rapporti, tra chi conferisce gli organi e chi li riceve, iniqui e nei quali, nella sostanza, il vantaggio è sempre dei più ricchi a dispetto dei più poveri.

A chi, a questo punto, continuasse a rilevare che la chiusura nei confronti del mercato degli organi, sia libero, sia “apparentemente” controllato, rivela insensibilità al problema della penuria degli organi, si può rispondere che, senza sottovalutare il fenomeno, si deve avviare una seria riflessione sulla significativa incidenza che, sulla sua riduzione, possono avere il miglioramento del tessuto organizzativo e iniziative informative/formative volte a far crescere la cultura della donazione degli organi, soprattutto da cadavere, ma anche l’adozione di criteri particolarmente rigorosi, da parte dei medici, nella individuazione delle situazioni nelle quali quella del trapianto può essere davvero considerata la strada clinicamente appropriata.

A chi, infine, puntasse il dito sull’inadeguatezza di un modello che, come quello introdotto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico d’organi, si affida agli strumenti repressivi del diritto penale per contrastare un fenomeno dalle pesanti ricadute discriminatorie sui soggetti più disagiati e deboli delle diverse aree del mondo, si può rispondere che esso si radica in un modello si società nel quale i diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla salute, devono esseri presi sul serio e rappresentare i fari orientatori delle politiche messe in atto a livello globale per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio dei diritti. Un modello non indebolito nella sua valenza orientativa, ma rafforzato dagli scenari di acuite discriminazioni e disuguaglianze, che sono sotto gli occhi di tutti, e lo stesso modello al quale si è ispirata l’Organizzazione delle nazioni Unite che, nel definire, nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il programma di azioni tanto impegnative e difficili da realizzare, quanto necessarie per il futuro di tutta l’umanità, ha individuato nella sconfitta, o, quantomeno, nella riduzione della povertà e della fame gli obiettivi prioritari da realizzare in vista dell’ulteriore obiettivo di poter finalmente non discriminare gli individui, riconoscendo a tutti, e non solo ad alcuni, il diritto a una vita vissuta il più possibile in salute.

Approfondimenti:

Libri:

  • Borsellino, P. (2018). Bioetica tra «morali» e diritto (2nd ed.). Raffaello Cortina Editore.
  • Porciani, F., & Borsellino, P. (2018). Vite a perdere: I nuovi scenari del traffico d’organi. Franco Angeli.

Articoli/Paper:

Conferenze/convegni:

  • Borsellino, P. (2023, 1 dicembre). [Attività di moderatrice e commenti]. In P. Borsellino (A cura di), Suicidio medicalmente assistito ed eutanasia: Le questioni aperte [Convegno]. L’etica di fine vita tra passato e futuro. Milano, Italia. https://youtu.be/OaLcnwbf7ck?si=EQGaF4rKC66UpTIG
  • Borsellino, P. (2021, 13 ottobre). Filosofia del diritto e bioetica, un incontro opportuno, anzi necessario [Seminario]. Che cosa ne pensi della filosofia? Milano, Italia. https://www.youtube.com/live/3VNNuC6Ydu0?si=G2q44NVgKxww5El2
  • Borsellino, P., & Eusebi, L. (2020, 1-15 febbraio). Diritti individuali e doveri sociali [Relazione]. Obiezione di Coscienza e Diritti, Firenze, Italia. https://youtu.be/EJJSPn9wI28?si=vy8M2TSFuUVDcadh
  • Borsellino, P. (2019, 21 ottobre). Le mutilazioni genitali tra rispetto delle culture e diritti degli individui. In P. Borsellino (A cura di), World bioethics day – Diversità culturale come valore e rispetto degli individui [Convegno], Milano, Italia. https://www.radioradicale.it/scheda/587818
  • Borsellino, P. (2018, 14 maggio). Verso nuovi scenari di cura: Prospettive e problemi aperti. In S. Salardi (A cura di), Libertà di scelta e garanzie di cura [Convegno]. Milano, Italia. https://youtu.be/U5IPVfLzvQ4?si=qPGhitUAk4pRsKfg

Interviste:

Home » Tutti gli articoli » Intervista a Patrizia Borsellino
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